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Domenica dilettante. Chirurgia editoriale

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Se c’è qualcosa che mi fa sentire un uomo peggiore di quello che avrei voluto essere, è la pigrizia che m’impedisce di portare avanti le mie inimicizie. Il tempo riesce immancabilmente a rimarginare cicatrici e ferite come farebbe un discreto cerusico soltanto perché, più indolente dell’impero di Verlaine, trascorro la convalescenza obbedendo controvoglia alla prescrizione di non muovermi troppo.  L’odio è  un sentimento potente. Conduce al lato oscuro. E alla vendetta. E alla spada laser. Ma chi può oggi permettersi davvero di alimentare periodicamente la fornace infernale dell’odio? Un nemico richiede una devozione inestinguibile. Un’attitudine che mi è estranea, come avrete intuito dalla scarsa frequenza con cui si susseguono i post di questo blog. Magari potessi avere un vero nemico! Ah poterne, ah volerne! E invece il mio arci-nemico è ormai un ex arci-nemico, presente persino nel mio album di famiglia accanto agli altri cari. Quel che resta è qualche semi-nemico. Qualcuno che in verità si è guadagnato l’appellativo più per una mia ironica concessione alla sua capacità di rompere le scatole che per un reale astio nei suoi confronti.

Uno dei miei attuali semi-nemici, un casertano cinquant’enne ingrassante, mi ha recentemente concesso di leggere uno dei suoi racconti. In quanto semi-nemico non sarebbe per me sensato lasciare considerazioni sul suo racconto, dato che al mio simpatico e scaccolantesi lettore non potrebbe giovare un giudizio dichiaratamente frutto di una pigra, ma comunque viva, inimicizia.  D’altra parte ciò mi lascia lo spazio per alcune riflessioni parallele, derivanti dal fatto che il racconto mi è stato generosamente fornito con tanto di revisioni di un editor. Così ho potuto finalmente osservare da distanza ravvicinata il lavoro di questa mitologica figura con il corpo di uomo e la testa di somaro. Ecco a voi il presentatore del gran premio del cattivo gusto letterario. La patente manifestazione dell’idiozia editoriale planetaria. L’editor.

-Cosa fa un editor?

-Corregge un testo da pubblicare.

– Ah, – dirà il mio lettore ingenuo e fiducioso – corregge gli errori che possono essere sfuggiti all’autore.

– Eh no, mio caro Candido. Se così fosse, cosa giustificherebbe la ripugnanza che provo nei suoi confronti? In quel caso, invece, gli sarei grato per il suo lavoro a tal punto che lo omaggerei con una simpatica dedica al principio e al termine dei miei scritti. No, Candido, quello a cui ti riferivi tu era il correttore di bozze: l’uomo-macchina il cui compito è sì tremendo e faticoso, ma sacrosanto nonché utilissimo. L’editor, invece, è colui il quale si occupa di rendere il testo da pubblicare pubblicabile (E qui gli occhi del mio buon Candido compiono una rotazione verso l’alto assecondando l’imminente domanda verdoniana “In che senso?”).

Insomma l’editor ha l’ingrato e ignobile compito di adattare il testo ai gusti del pubblico o a quelli della casa editrice (che spesso per ragioni di bilancio devono coincidere). I nomi dei personaggi fanno cacare? (Certo pure tu che chiami un personaggio Fabio Musso, che diavolo!) Lui gli dà sex appeal. La tua storia ha una patina dialettale? Lui la rende, invece, internazionale (già gli italiani sono pochi, quelli che leggono meno; perché vuoi limitare il tuo pubblico?!). I tuoi personaggi non hanno introspezione psicologica? Lui si inventerà qualche struggimento manierato per compiacere il suo ego nutrito dall’idea balorda della scrittura come sofferenza interiore, nonché per rassicurare l’educazione sentimentale del lettore per sempre adolescente. Non c’è trama? Eccolo sferruzzare al tuo posto, così che tu abbia una sciarpa rossa da indossare quando ti chiederanno di presentare il tuo insulso codalavoro.

L’editor, dunque, non è altro che un ben ammaestrato chirurgo plastico. Sebbene il suo senso estetico sia quello di nexus di seconda generazione, egli è comunque capace di innestare su qualsiasi corpo ciò che è in grado di adescare la bestiale sensibilità del lettore. Sa fare tette, culi, nasi, cappotti, zigomi e canotti simili a labbra. Tutti uguali, certo, ma sa farli. E inoltre sa convincere il cliente circa l’opportunità del suo necessario intervento.

La figura dell’editor più che a quella di un qualsiasi miserabile dotato di velleità letterarie, è assimilabile quindi a quella di un operaio addetto alla verifica dello standard richiesto. Un operaio, non un artigiano. Se avesse, infatti, anche solo un qualsiasi vago residuo di temperamento artistico, l’editor non potrebbe in alcun modo accettare il suo lavoro. Egli ne avvertirebbe immediatamente la profonda immoralità, comprendendo di non essere affatto un censore dignitoso, ma un imbellettatore di manichini destinati a scalare l’Olimpo della spazzatura indifferenziata; capirebbe di essere nient’altro che un compiacente allevatore di polpette per il tritacarne del talk show letterario, un camice bianco che sancisce con il suo marchio a fuoco la macellabilità di un capo di bestiame e si fa garante della digeribilità del prodotto. Reciterebbe così un mea culpa e si metterebbe a riparare caldaie o lavatrici infestate dal calcare.

“Va bene”, direte voi. “Ma adesso dove vuoi andare a parare. Cosa ce ne facciamo di cinquecento parole di insulti? Spiegati meglio. Concludi”.

Mi dispiace, ma non ci riesco. Avete ragione: manca qualcosa. Manca la forza di odiare fino in fondo qualcuno. Chi sa, forse ho bisogno anche io di un editor.

[Il mio editor mi ha consigliato di inserire questo ultimo paragrafo dopo la parola “prodotto”, ditemi cosa ne pensate] E allora, cari lettori-scrittori, adesso che sapete cos’è un editor, con quale spirito accetterete da domani (oggi è festa) di sottoporvi al suo cieco parere? In quale altro modo potrete reagire alle sue proposte di modifica se non con un plateale e rumorosissimo gesto dell’ombrello? Sarete ancora capaci di sacrificare la vostra integrità di scrittore scadente o di grande voce inascoltata in cambio del narcisistico compiacimento derivante dalla pubblicazione in una rinomata collana di bigiotteria editoriale? E, invece, voi cari lettori-lettori, come farete d’ora in avanti a non considerarvi truffati ogni volta che aprirete un libro dell’ultimo fenomeno in fiera di turno, sapendo che l’autore di quel libro è soltanto un volto e un nome anagrafico la cui consapevolezza artistica è stata completamente erosa dalla cretinaggine linguacciuta dell’editor? Come disse il saggio Siddharta Gautama oltre duemilacinquecento anni fa: “Probabilmente gli unici autori viventi che vale la pena leggere sono quelli che hanno rifiutato i consigli nefasti di un editor”.

[N. B. Per la riuscita di questo post nessun editor è stato maltrattato]

Domenica dilettante. La pizza

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Ci risiamo. E’ la solita storia del cuoco, pizzaiolo, parrucchiere, calciatore, comico, politico di turno che realizzata una fortuna grazie alla sua indubbia professionalità decide di tirare fuori dal cassetto il romanzo che vi aveva sempre stipato e di darlo finalmente in pasto agli editori assetati di sangue fresco. I vampiri sono dei formidabili gourmet e sanno bene che la stitichezza media dello scrittore di nicchia (Joyce, Verga, per fare qualche nome che comunque non vi dirà molto) rende il loro sangue, quel poco sangue che ancora pulsa nei loro eburnei e violacei cadaveri surgelati, amaro come la bile. O sang’ e chi ve mmuort’, ma o capisc ca si facimm ascì o libr’ e stu strunzill ce facimm nu sacc e sord? Sangue rosso come le rose rosse; vivo, pulsante, pornografico. Il libro del VIP come feticcio per entrare in empatia con lui, per cercare di scovare anche in lui lo sporco segretuccio che titilla la fantasia demente di ogni idolatra. E la ressa che si fa intorno poi, ha l’odore ributtante dell’acquitrino: R. invitato alla trasmissione di RaiUno. R. invitato su La7. Stasera quell’imbecille di R. da Fazio. Imbecille, poi. Va bene, ma andiamoci piano. Non è che se una persona è diventato un magnate della pizza napoletana partendo dal nulla, deve essere proprio un cretino. Potrà essere un ignorante, un povero di spirito, un illetterato, persino un analfabeta. Però, imbecille. Dai, non esageriamo.

E se per una volta, invece le cose non stessero così? Se per una volta uno degli uomini più ricchi del mondo, non fosse altro che un povero cristo che a trent’anni ha ripiegato sul suo hobby – l’approssimativa pizza che preparava per qualche amico il sabato sera- perché il suo lavoro sembrava la più triste e solitaria delle felicità che aveva sognato? Un povero cristo che ogni notte per vent’anni, dopo una giornata trascorsa tra l’odore fragrante e leggermente pungente della pasta madre, dopo aver dato la buonanotte alla sua famigliola devota, si  rintanava el suo studiolo per dedicarsi al suo vero lavoro? E se quel mattone di seicento pagine fosse il più denso megalito letterario dai tempi di Horcynus Orca?

“Benvenuto signor R., finalmente ho il piacere di conoscerla. E’ stato da Letterman qualche anno fa. Ma il nostro show ha un tono culturale più alto e noi  l’abbiamo invitata solo in qualità di scrittore. E’ uscito il suo primo libro. Allora, Signor R., di cosa parla?”, disse Conan cercando di conservare quella compostezza che era dote specialissima del suo collega Letterman. “Lo sa che per far lievitare l’impasto di una pizza ci vogliono più di dodici ore?” rispose R.. Conan guardava in camera perplesso.